Le storie dei migranti

“Raccontare la mia storia mi fa bene”, così mi dice uno dei giovani migranti quando gli chiedo se ha voglia di parlare di sé. La sua osservazione scuote la mia concentrazione attenta solo a porre le domande giuste per invitare al racconto. Subito però un lampo attraversa la mia mente e il mio cuore e mi fa intuire all’inizio tutta la sofferenza della sua vita, i suoi sacrifici alla ricerca di una “terra promessa” e il suo desiderio naturale di nascondere, forse, le umiliazioni e le sottomissioni.

E nello stesso tempo queste parole mi parlano del suo desiderio ad una vita migliore, della sua fede. Insomma della sua voglia di vivere che s’interseca con il dolore necessario. In tal senso, il ricordo di ciò che è stato può anche diventare una conferma delle sue scelte passate e presenti e può diventare anche un’esperienza terapeutica.

Non per tutti. Per alcuni il dolore associato al ricordo è intollerabile. Altri, invece, raccontano poco della loro vita.

Certamente le storie dei migranti fanno bene a noi, a patto di comprenderle senza distanze tra noi e loro, in empatia con il dolore di queste parole, a volte incerte nel lessico e nella grammatica, a volte solo allusive, ma sempre colme di umanità.

I testi, raccolti da Danila Sanniola, tracciano alcuni profili dei migranti protagonisti di “Culture in volo”: semplici toccanti testimonianze, raccolte dalla loro viva voce e qui riportate fedelmente.

Tiamoko

Tiamoko, 22 anni, Mali

“Io sono Tiamoko, ho 22 anni, sono nato a Faraba, un villaggio vicino alla città di Sikasso, nel Mali. Il mio bua, mio padre, Maliki aveva una bottega dove vendeva cereali, mia madre Salmata lavorava in casa. La nostra casa era di una sola stanza, a piano terra. Sono figlio unico, non sono andato a scuola. Tutto il giorno aiutavo il mio papà e la mia mamma. Qualche volta giocavo per strada a pallone con i miei amici. Senza scuola non ho trovato lavoro e così a 13 anni sono andato a Bomako (la capitale del Mali ndr) dove ho lavorato in un ristorante: lavavo i piatti e aiutavo a cucinare. A 15 anni sono andato in Libia, ho lavorato in una fabbrica di bicchieri. Nel 2011 con la guerra sono scappato e con una grande barca – con me c’erano più di 400 persone – sono arrivato a Lampedusa e dopo pochi giorni con un pullman ci hanno portato a Napoli. Era il mese di giugno, a luglio ho compiuto 19 anni. Siamo stati ospitati in un albergo vicino piazza Carlo III per quasi due anni. Non ho imparato nessun mestiere. Sono andato in una grande scuola per imparare l’italiano ma non capivo niente e non ci sono andato più. Da un anno frequento la Scuola “Samb & Diop” e il Laboratorio di artigianato di Marco. Mi piace stare con tante persone di Paesi diversi. Qui si ride spesso e penso che chi ride sia una brava persona. Sono sette anni che non vedo i miei genitori e da quando sono a Napoli non li ho più sentiti perché durante il viaggio ho perso i numeri di telefono. Ricordo che mia madre mi diceva sempre “cose buone”, mi mancano le sue parole di aiuto e di guida… E anche la sua cucina, soprattutto il riso con i fagioli. Il lavoro che sogno è fare l’avvocato. Mi piace molto sentire parlare in napoletano e lo vorrei imparare”.

Idris

Idriss, 24 anni, Ciad

“Io sono Idriss, ho 24 anni, sono nato il 2 maggio, ad Abéché la città più importante dopo la capitale, in Ciad. Mio padre Halou lavora in una fattoria con cavalli e mucche, e mia madre Zenaba lavora in un negozio di vestiti da donna con le mie sorelle. Ho tre fratelli e due sorelle tutti sposati. Ho frequentato per due anni la scuola coranica dove ho imparato un poco a scrivere l’arabo. A 16 anni con sette amici e una macchina, dopo una settimana di viaggio, siamo entrati in Libia. Mi ricordo il deserto, il vento e auto arrugginite abbandonate nella sabbia. La Libia è bella, è un paradiso, mi mancava solo la famiglia. Lì ho lavorato prima come cameriere in un ristorante, dove ho imparato a cucinare bene, e poi come saldatore. Poi è iniziata la guerra e non c’è stato più rispetto per noi neri. Ho deciso di andare via con quattordici compagni, ognuno ha pagato duemila dollari. Su una nave a due piani con 2200 persone. Nessuno ha potuto portare niente con sé, solo un po’ d’acqua e delle sigarette. Ho tagliato la suola delle mie scarpe per mettere qualche soldo che avevo risparmiato. Sulla nave mancava l’aria, i vapori di scarico del motore erano asfissianti. Due giorni e otto ore in mare. Non piace ricordarlo: ho visto quattro morti con i miei occhi ma sono morte tante altre persone. I più deboli e malati venivano buttati in acqua. Eravamo così tanti che ho visto persone sedersi su altre svenute. Finalmente a Lampedusa ci hanno dato da mangiare e abbiamo fatto una doccia. Fanno davvero una cosa bellissima! Un’altra nave ci ha portato a Napoli. I miei quattordici compagni ora sono per l’Europa. Solo io sono rimasto a Napoli. Se pensavo che l’Europa era così io non venivo, ma in Libia ci dicevano che qui si poteva trovare lavoro; invece ho visto che lavoro non c’è. Amo Napoli, è come se fossi a casa, e se vado in altre città d’Italia è diverso, Napoli mi manca. La gente di Napoli è aperta, al Nord sembrano più tristi. Ora ho trovato un lavoro ma soprattutto tanti amici. Mi manca tanto la mia famiglia, da otto anni non li vedo. Voglio lavorare e guadagnare per mandare i soldi per costruire una casa e tornare in Ciad… Questo è il mio sogno, la casa per noi è troppo importante. Poi vorrei trovare una fidanzata, ma la posso trovare qui e lì…”.

Amadou

Amadou, 42 anni, Senegal

“Io sono Amadou. Vengo da Dakar, in Senegal, dove sono nato il 26 novembre 1972. Mia madre si chiama Kumba, non lavora, e mio padre Mamadou, ora pensionato, prima guidava pullman. Ho due sorelle e due fratelli, uno vive e lavora a Ravenna. Dai 7 ai 17 anni ho frequentato la scuola coranica a Gesan e a Diourbel perché mio padre diceva che fuori la capitale avrei avuto una migliore educazione e poi la vita è più tranquilla e le persone sono buone. Ho studiato la religione musulmana nella mia infanzia e sono stato tanti anni lontano dai miei genitori. A volte tornavo a casa per la grande festa del Magal a Touba (1), poi piangevano tutti al momento dei saluti. Spesso giocavo con i miei amici a Lamb, lo sport nazionale senegalese. Dopo la scuola sono tornato a Dakar e qui ho lavorato come sarto e poi in una fabbrica di parrucche.
Io sono stato fidanzato varie volte però non è andata bene, perché non avevo tanti soldi e un buon lavoro e non mi trovavo bene con le famiglie. Un giorno mia mamma ha deciso che ero diventato grande, e mi ha fatto conoscere la figlia di sua sorella, educata, brava, buona come sposa. Io l’avevo vista altre volte ma non pensavo a lei come moglie. Lei si chiama Yasir. Lei non si è opposta, ha detto: “il sangue è lo stesso, sei come un fratello per me”. Un giorno sono andato a casa a presentarmi ai suoi ufficialmente. Poi è passato un mese senza vederci. Ci siamo rivisti il giorno del matrimonio e lei è venuta a vivere a casa nostra. Io avevo 30 anni, lei 23. Qualche volta Yasir lavorava con me in fabbrica, ora sta casa.
Abbiamo avuto 4 figli: 3 maschi e 1 femmina. Ho perso un figlio quando ero da sei mesi in Italia, aveva cinque anni. Mi chiama mio fratello e mi dice che il bambino è molto malato. Mi ha chiamato dopo due ore e ha detto che è morto. Ora i miei figli hanno 7, 10 e 12, vanno tutti a scuola e al telefono sempre mi chiedono: “Papà quando vieni?”. Io rispondo…….. “dopo”.
Sono venuto in Italia nel 2009. Prima però ad Istanbul, ad Atene tre mesi, a Madrid 15 giorni. Tutto questo perché non c’era il visto per l’Italia. Ho scelto l’Italia perché qui c’era mio fratello dal 1999. Sono stato con lui due anni a Ravenna ma non ho trovato lavoro, non era possibile senza documenti. Allora sono venuto a Napoli, dovevo lavorare per guadagnare, avevo moglie e bimbi a casa. Mi sono trovato bene per la gente, non ho trovato problemi di razzismo… Non molto almeno…
Ho conosciuto persone molto gentili, anche se continuo a non avere soldi.
Penso tantissimo al Senegal. Ho mia madre malata ora e non so quando potrò ritornare per vederla.
Il mio sogno ora è avere soldi e documenti. Dio è grande, la vita è dura, mi aiuterà.
Mia moglie mi chiede sempre soldi, non ha capito niente di com’è difficile, molto difficile, lavorare e non guadagnare niente. Non so domani cosa succederà. La mia vita gira attorno alla bancarella, la Scuola d’italiano (Centro Missionario Diocesano – Associazione Samb & Diop ndr), il Laboratorio (L’avventura di latta) e casa. Mi piace frequentare il Laboratorio: piano piano sto imparando un nuovo lavoro, perché la bancarella non è un lavoro rispettabile, non è per le persone. Qui nella Scuola ho trovato madre, padre, fratelli, sorelle. Ho tutto in questa Scuola: niente distanza tra noi e loro”.

(1) Il Gran Magal de Touba è una cerimonia di commemorazione della partenza in esilio del venerato Cheikh Bamba Mbacke, guida spirituale e servitore del Profeta Maometto. Si tratta del più importante evento religioso della tradizione islamica del Senegal. In questa occasione la grande Moschea di Touba, accoglie in tre giorni oltre due milioni di pellegrini che accorrono a visitare la tomba dello Cheikh.

Adam

Adam, 27 anni, Ghana

“Mi chiamo Zuhair Adam ma tutti mi chiamano Adam perché è più facile! Sono nato il 15 giugno ad Accra, in Ghana. Abubakar, mio padre, è un insegnate di arabo, mia madre Safuratu vende stoffe. Io sono il maggiore di quattro fratelli, vanno tutti a scuola. Anche io sono andato a scuola fino a 17 anni, scuola araba e inglese, mi piaceva, ma i miei genitori non hanno avuto la possibilità di mantenermi. Riso, carne e pomodoro e altri ingredienti è il mio piatto preferito che mi cucinava mamma… E mio padre mi diceva sempre di mangiare con la destra anche se sono mancino, perché da noi è come… non educato. Finita la scuola, sono andato a lavorare come muratore. Ho lavorato grazie a mia zia che aveva un contatto, altrimenti è impossibile in Ghana. Mi piaceva il mio lavoro, ricordo una bella atmosfera, costruivo case. Poi, dopo un anno non mi hanno rinnovato il contratto e quindi ho deciso di viaggiare. Ho preso un pullman per andare in Burkina Faso, poi un altro per il Niger. Per arrivare in Libia ho camminato due giorni nel deserto. In tutto, un mese di viaggio. Dal mio Paese sono partito con altri amici. Il primo giorno nel deserto ci hanno derubato di tutto: soldi, cibo. Ci hanno picchiato… Porto ancora delle cicatrici sul volto. Non pensavo mai potesse succedere una cosa del genere. Abbiamo aspettato che facesse giorno per ripartire. Non so come siamo sopravvissuti, ma sono arrivato in Libia. Ho trovato subito lavoro sempre come muratore. Avevo 19 anni. La Libia era economica: acqua, luce erano gratis e c’erano tante possibilità. Mi sembrava l’Europa perché è piena di luci. È un bel Paese. Ci ho vissuto 4 anni, ho lavorato anche in una fabbrica di legno.
Poi è scoppiata la guerra, problemi interni, l’intervento degli Stati Uniti. I Libici erano contro noi Africani migrati perché dicevano che appoggiavamo il governo. Potevi essere sparato per strada. L’unica alternativa era l’Italia. Impossibile tornare in Ghana perché le frontiere erano chiuse. Ho chiesto aiuto anche all’Ambasciata, ma niente. Ci siamo imbarcati. Sono scappato ma non sapevo se sarei sbarcato a Malta o in Italia, dipende dalle correnti. Due giorni di viaggio, ed è anche successo che la barca si è fermata perchè si stava riempendo d’acqua. Abbiamo pregato tanto. Ho avuto paura, ho pensato di morire. Per fortuna sono arrivati i soccorsi. Ho pagato 700 dollari per partire, i soldi me li ha prestati un amico dopo che in Libia ho subìto delle aggressioni.
Il 24 giugno 2011 sono arrivato a Lampedusa. Ricordo che ci hanno curato, dato cibo e un letto. Stavo molto male con la pancia. Il giorno dopo ci hanno portato a Manduria, un mese lì, in un campo. Poi siamo venuti a Roma: ci sono rimasto due anni. Non è stato facile avere i documenti e lo status di rifugiato. Non ho mai lavorato a Roma. Avevo degli amici a Napoli e ho deciso di raggiungerli.
Vivo qui da un anno e mezzo. Ho lavorato come raccoglitore nei campi, muratore, lavapiatti e un po’ di bancarella. Ora due giorni a settimana faccio le pulizie in un ristorante a Baia. Vivo a Castelvolturno. Siamo tanti in casa.
Ho bisogno di lavorare di più. Non posso fare nulla altrimenti. Se volessi sposarmi non potrei. Ogni tanto chiamo la mia famiglia, loro sempre pregano che io possa sistemarmi… Infatti non mi chiedono di inviare soldi.
Prima sogno un bel lavoro, poi di sposarmi”.

Selim, 35 anni, Sudan

Io sono Selim. Ho trentacinque anni. Sono nato nella città di Alfasher nel centro del Sudan. Amnalim è il nome di mia mamma. Non lavora. Mio padre lavorava in campagna. Ora non c’è più: è morto per la guerra. Ho sei fratelli. Alcuni lavorano e altri no. Da ragazzo, mi piacevano tutti gli sport. Sono andato a scuola fino a dodici anni, ma non si poteva andare a scuola perché dovevamo sempre lasciare il paese con la mia famiglia a causa della guerra. Per quel che potevo, facendo avanti e indietro ho lavorato come meccanico, saldatore e sarto. Non mi sono sposato. A ventidue anni sono andato in Libia. Due mesi di viaggio. Quindici giorni di deserto bloccati per un guasto alla macchina. Un solo bicchiere di acqua al giorno. Ventotto amici si sono ammalati per mancanza di cibo. Non posso continuare, non ce la faccio.

Ismail, 23 anni, Libia

Io sono Ismail, sono nato in Libia nella piccola città di Aubari, ho ventitré anni, due fratelli e tre sorelle. Sono della tribù dei Tuareg (popolazione berbera dell’Africa sahariana n.d.r.)e fin da piccolo ho imparato a conoscere il deserto orientandomi di notte con le stelle e di giorno con la forma e la qualità della sabbia. Mio padre lavorava in campagna. La mia mamma non la ricordo molto, è morta quando avevo nove anni. Dai sei ai nove anni sono andato a scuola ma, dopo la morte di mia madre, mio padre mi ha mandato a lavorare presso un meccanico. Nel 2011 sono arrivato a Lampedusa su una grande barca: ho pagato il viaggio con i soldi che avevo conservato. Avevo troppo paura delle bombe che cadevano e di tanta gente che si ammazzava. Non mi sono schierato da nessuna parte perché non volevo uccidere nessuno. Io volevo solo vivere, volevo solo lavorare e poter vivere senza avere più paura.
Nel barcone eravamo in tanti, anche tanti bambini, ma alcuni non ce l’hanno fatta perché sono morti soffocati nella stiva. Nessuno ha sentito le loro grida di aiuto. Eravamo in troppi, nessuno ha pensato che lì sotto potevano rischiare di morire.
Ma ai padroni della barca cosa importa? Anche morti avevano già pagato.
A Lampedusa dopo alcuni giorni una nave grande ci ha portati a Napoli. Qui siamo stati ospitati in vari alberghi di Piazza Garibaldi.
Per un anno ho aspettato che la  Commissione mi riconoscesse lo status di rifugiato, ma l’esito dell’esame è stato negativo. Grazie ad un avvocato della CGIL ho fatto ricorso. Nel frattempo ho lavorato a Trecase nei campi. Ho raccolto albicocche, olive e uva.
Mi davano da 20 a 25 euro al giorno per otto ore di lavoro. Con altri tre amici pagavamo cento euro a persona una camera. Ora vivo presso un centro di accoglienza, siamo in trenta (tre persone in ogni camera). Da soli ci prepariamo da mangiare. Da un anno e quattro mesi partecipo al laboratorio  artigianale “L’Avventura di latta”. Mi piace perché sto imparando a lavorare i metalli. Poi perché sto con amici e poi perché guadagno qualcosa. Mi piacerebbe che diventasse un lavoro. Potrei anche fare il meccanico. Mi piace anche andare alla Scuola di italiano. L’anno scorso ho avuto l’attestato di conoscenza della lingua italiana di livello A2 e ora sto studiando per l’esame di licenza media, perché vorrei continuare gli studi. Qui a Napoli non ho molti amici, è difficile per me perché sono timido. Per ora non posso tornare in Libia perché non mi sono schierato con i nemici di Gheddafi che ora sono al potere. Se tornassi rischierei la vita o la prigione. Mi piacerebbe tornare in Libia, nella mia tribù e fare la guida nel deserto per i turisti. E poi perché la mia famiglia è lì.

Jacob, 31 anni, Ghana

Il mio nome è Jacob. Io vengo dal Ghana. Sono nato a Dormaa. Ho trentuno anni, non sono sposato e non ho figli. La mia religione è quella cristiana. Non fumo e non bevo alcolici. Ho studiato e mi sono diplomato. Con il mio diploma non ho trovato lavoro e sono stato costretto a fare l’operaio scavatore. I miei genitori sono morti. Hanno lasciato me e i miei tre fratelli che non sono abbastanza forti di prendersi cura di loro stessi. Mio padre per vivere ci ha lasciato un campo di cacao, ma i suoi parenti lo hanno preso e così vivere è diventato sempre più difficile per me e i miei fratelli. Lavoravo come operaio scavatore, ma mi hanno licenziato a causa dei conflitti che ho avuto con la famiglia di mio padre. Per questo ho lasciato il mio Paese e sono andato in Libia. Qui ho trovato lavoro, ma sfortunatamente dopo quattro mesi è scoppiata la guerra ed io, nero e cristiano, ero in pericolo, perché ero considerato favorevole a Gheddafi. Non sapevo dove andare e non avevo altro luogo se non l’Italia. Per questo mi trovo qui. Sono sbarcato a Lampedusa  nel settembre 2014 e dopo alcuni giorni con dei pullman ci hanno portati a Napoli, dove siamo stati ospitati in un centro di accoglienza in attesa del riconoscimento dello status di rifugiato. Ora sono già quattro mesi che sono in Italia e ringrazio Dio per la sua protezione. Io vorrei tanto trovare un lavoro. Per favore. Grazie. Io sono Jacob, un uomo solitario.

Ibrahim, 41 anni, Senegal

Io sono Ibrahim. Sono nato a Ndioum, in Senegal. Ho quarantuno anni. Mio padre è pensionato. Ha quattro mogli.  Mia madre è la terza. Si è sposata molto giovane, lavora in casa e ha avuto 8 figli. Io sono il secondo. Quando ero piccolo mi piaceva costruire macchinine con il filo di ferro e i miei amici erano molto contenti  di giocare con me.
A cinque anni sono andato alla scuola coranica. A sette anni sono andato alla scuola francese e a dodici anni sono andato in collegio, dove ho frequentato fino al liceo. Poi sono andato all’università dove ho studiato lingua e letteratura francese, inglese e spagnola. Da giovane soffrivo di forti mal di testa e spesso ho pensato che sarei morto. Mio padre, che considero il mio migliore amico, mi portava spesso in ospedale e un giorno, disperato, mi ha portato perfino da un marabutto (personaggio cui si attribuiscono poteri di guarigione. n.d.r.)
Finita la scuola, per guadagnare subito mi sono messo a vendere piatti, bicchieri e oggetti di ceramica. Poi sono andato a lavorare Dakar in una fabbrica di conservazione del pesce per due anni. Il padrone mi pagava 4 euro al giorno e così ho cercato e trovato un altro lavoro come installatore di stand nelle fiere espositive.
Ho provato a lavorare anche in Guinea Bissau, in Sierra Leone e Mali. Nel 2008 mi sono sposato e nel 2010 è nato mio figlio. Spesso pensavo che guadagnavo poco per poter mantenere la mia famiglia e aiutare anche mia madre e così nel novembre 2013 ho deciso di venire in Italia. Sono venuto a Napoli perché qui ho un amico che considero come un fratello che mi incoraggia e mi aiuta.  Napoli mi è subito piaciuta come città. Mi ha impressionato la sua architettura. Mi ricorda il Messico che spesso vedevo in televisione. Mi sento come se fossi in Africa. Qui ci sono i razzisti, ma pochi. Ci sono i ladri, ma come in tutto il mondo. Da maggio 2013 frequento il laboratorio artigianale ”L’Avventura di latta” per la lavorazione dei metalli . Mi piace molto. Mi piace inventare nuovi oggetti e stare insieme alle altre persone con cui lavoro. Mi piacerebbe che si formasse in una cooperativa artigianale. Così potrei anche avere il permesso di soggiorno.
Sto frequentando la scuola di Italiano per imparare bene questa lingua che mi piace molto. Alle mie insegnanti auguro buona salute e lunga vita. Il mio maestro di laboratorio (Marco Cecere n.d.r.) è amabile, sempre sorridente: non deve mai cambiare. E’ generoso perché dona la sua esperienza.

Emmanuel, 34 anni, Nigeria

Io sono Emmanuel.  Sono nato ad Abuja, un villaggio in Nigeria.
Ho trentaquattro anni. Mio padre insegna in una scuola cristiana. Siamo sei figli. Ho studiato e dopo il diploma mi sono iscritto all’Accademia delle Arti e mi sono laureato in Grafica. Ho trovato lavoro dipingendo.
Mi piaceva molto dipingere, ma ho dovuto nascondermi perché ero ricercato.
Infatti, sono omosessuale e in Nigeria i gay sono  arrestati e incarcerati  e addirittura torturati. Ho saputo anche di alcuni giovani uccisi, senza che i loro assassini siano stati processati e puniti.
Io sono diventato attivista per i Diritti Umani della comunità LGBT ((lesbiche, gay, bisessuali e transgender, n.d.r.). Sono scappato a Tripoli, ma qui la guerra mi ha fatto di nuovo scappare. Ho pagato mille dollari per salire su un barcone. Sono sbarcato a Reggio  Calabria e il 5 settembre sono arrivato a Napoli. Qui sono stato accolto e vivo in un centro di accoglienza ma la mia passione è dipingere ed appena mi regalano colori e tela dipingo .
Uso colori molto forti: marrone, ocra, giallo, rosso scuro, blu. Sono i colori dell’Africa.
Dipingere la mia terra me la fa sentire più vicina. Dipingo soprattutto volti di bambini e i loro occhi pieni di speranza.

Salifu, 31 anni, Ghana

Io sono Salifu. Sono nato a Bolga, in Ghana. Ho trentuno anni. Mio padre insegna arabo e mia madre ha un negozio di profumi. Sono il terzo di nove figli. Dai 7 ai 18 anni sono andato a scuola e mi sono diplomato in una scuola di informatica. Per due mesi ho lavorato presso una radio locale come cronista. Ho anche scritto alcuni articoli di giornale. Poi sono andato a Kumasi, dove ho trovato un lavoro di riparazione  dei computer e poi come tecnico in una radio.
Nel 2006 la mia fidanzata, di cui ero molto innamorato, mi ha lasciato e allora per il dolore e la rabbia ho deciso di lasciare il mio paese e sono andato in Libia, dove un mio cugino mi ha aiutato a trovare lavoro in una ditta di import-export perché parlavo bene l’inglese e l’arabo.
Mi trovavo bene ed ero pagato abbastanza bene, ma dopo un anno ho cominciato a ricevere minacce perché ero di un altro Paese e non avevo il permesso di soggiorno. Nel 2007, non volendo tornare più nel mio Paese, e non potendo più restare in Libia, ho deciso di venire in Italia.
Ho pagato milleduecento dollari e sono arrivato con un barcone a Palermo. Qui ho trovato vari lavori ma ero pagato sempre molto poco e senza contratto. Nel 2010 sono venuto a Napoli a trovare un amico e qui, durante la festa dell’Eid al-Adha (festa del sacrificio N.d.r.) ho conosciuto una ragazza. Subito siamo diventati amici e per due anni ci siamo sentiti per telefono e ci siamo scritti.  Poi ho capito che ero innamorato e ho deciso di lasciare Palermo e di trasferirmi a Napoli.
Un mese fa è nato nostro figlio, un bellissimo maschietto. Qui a Napoli in una piccola bottega riparo computer e cellulari. Conosco abbastanza bene l’italiano e mi piacerebbe avere la licenza media per frequentare l’Istituto tecnico, perché il diploma che ho preso nel mio Paese non è valido in Italia. Per ora non guadagno molto e vivo presso un amico mentre la mia donna abita presso la madre. Ci vediamo due giorni a settimana, ma il mio sogno è di trovare una casa per vivere con mio figlio e la donna che amo. A chi mi chiede se sono pentito di aver fatto e di fare tanti sacrifici, rispondo: “Nella vita, anche senza soldi, se si trova una persona che ti è vicina e ti ama e poi con un bambino: ne è valsa la pena”.